a cura di Sebastiano Giovanetti (4AM, Liceo Linguistico Moderno)
Immaginate: è un giorno qualunque di un anno qualunque nel campo di sterminio di Auschwitz.
Siete uno dei milioni di ebrei imprigionati per cui un giorno vale l’altro, ormai abituati ad abusi e violenza. Per voi il mondo è buio, non c’è colore, non c’è felicità; il grigiore della vita impregna la vostra anima che, a questo punto, non è più spessa di un torsolo di mela rinsecchito.
Eppure non è così. Non è un giorno qualunque e l’anno è ancor più rilevante: il calendario segna il 27 gennaio del 1945.
Dopo alcuni anni di avanzata incontrastata, l’Armata Rossa ridimensiona i confini tedeschi fino al sud della Polonia, conquistata nell’ormai lontano 1939. I sovietici giungono davanti ad un cancello con l’imponente insegna che recita la bugia “Arbeit macht frei”.
Come si può essere liberi se si è ebrei in questo mondo?
Immaginate: ormai siete rassegnati, vi siete arresi a quella non-vita.
Diciamoci la verità: la bestia del terzo Reich ha calpestato la vostra libertà, vi ha rinchiusi e vi ringhia contro. Per loro non siete altro che bestie.
Eppure, anche quando la speranza sembra morta, i sovietici rompono le linee. Sentite spari, urla, bombe e poi…L’aprirsi di una porta.
Non sentivate un rumore così celestiale, così soddisfacente da almeno sei lunghissimi anni. Ed è solo l’inizio dei rumori che fanno stare bene: si rompono le catene, il cigolio delle celle si sente per l’ultima volta, i passi incerti di chi finalmente diventa libero davvero e poi il tipico rumore della neve che si rompe sotto il vostro peso.
Sfortunatamente, i sentimenti non seguono una logica o la normale regola di causa-effetto, quindi voi non riuscite a sentirvi felici. Lo sgomento va oltre la tristezza e, appena usciti, non sorridete, ma guardate il cielo, gli alberi e la struttura che volete lasciare al più presto.
La gioia è rimasta dentro di voi senza mai avere nessuno spiraglio per uscire, nessuna crepa nel muro che i nazisti vi hanno creato intorno.
Alla fine, hanno vinto loro. Alla fine, l’intento disumanizzante l’hanno raggiunto: vi hanno privato delle emozioni e pure il vostro stupore è tenue, forse condizionato dalla paura che il dolore possa ripresentarsi alla porta della vostra anima con tutta la sua intensità, per squarciarla e dividerla in mille frammenti, a dimostrazione che l’incubo non ha termine.
Immaginate: dopo sei lunghissimi anni dovreste sentirvi felici, ma non ci riuscite.
Riflessione profonda, sì la felicità non si impara, si vive.
Come pure la condivisione, condividere un orrore che non vogliamo più replicare