a cura di Biancamaria Adelaide Clamar, 3AC – Liceo Classico
Qualche tempo fa vidi un palloncino che volava sempre più in alto nel cielo.
Lo osservai mentre i venti ci giocavano a palla e se lo scambiavano portandolo ora a destra, ora a sinistra, ora verso le stelle e le galassie, ora verso la nostra dura e fredda terra. Ricordo che mi chiesi come dovesse essere, come si potesse sentire il palloncino mentre volava. Mi chiesi se ci stesse guardando, se stesse ridendo delle insignificanti tragedie dell’umanità, o se stesse piangendo la perdita del suo bambino, che lo teneva sempre stretto stretto, dal capo opposto del filo.
Camminavo e speravo di poter un giorno essere quel palloncino, domandandomi se bastasse un po’ d’elio per avere un assaggio di quella libertà di cui più e più volte avevo pianto la scomparsa, o se ci fosse qualcosa di sbagliato in me, nella mia intrinseca natura, che mi impediva di essere felice.
Come mai il palloncino sì e io no? Come poteva lui, creazione umana, avere ciò per cui io, uomo, avevo sempre combattuto e che però non avevo mai ottenuto? Come osava, quell’inanimato ma colpevole palloncino?
Ecco che davanti a me vidi ora un bimbo. Lacrime gli rigavano le guance mentre guardava in alto. Stava cercando qualcosa, ne ero sicuro, ma non sapevo cosa. Così mi fermai, gli toccai una spalla e gli chiesi: “Va tutto bene, piccolo?”
“No signore, ho perso il mio palloncino”
“Non ti preoccupare, bimbo. Te ne compro un altro se vuoi” “Posso?”
Gli comprai un palloncino: uno di quelli belli e colorati, quelli che vendono soltanto a Natale.
E fu così che mi accorsi che non serve volare in alto per essere felici, che le stelle sono molto più vicine di quello che pensiamo, perché il cielo comincia quando finisce il dito di un bambino.
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