di Leonardo Ricci, 3BG linguistico
“El Diez”, “el Pibe de oro”, “la Mano de Dios” sono solo alcuni dei soprannomi che ritraggono un genio del pallone tanto forte quanto fragile come Diego Armando Maradona, che di recente ci ha lasciati, creando un vuoto nel cuore di tutti i tifosi e amanti del calcio del mondo.
La nostra prima intervista impossibile è proprio con lui: con il suo modo estroverso ci ha rilasciato delle dichiarazioni molto interessanti…
Buongiorno signor Maradona, grazie per la sua disponibilità e per questa opportunità.
Di niente, sono felice che qualcuno si interessi ancora alla mia storia.
Lei è nato a Lanùs il 30 ottobre 1960, ma la città dove è cresciuto è Villa Fiorita, nella periferia di Buenos Aires. Come è stata la sua infanzia lì?
Nominando Villa Fiorita mi fa tornare alla mente i più belli anni della mia vita, passati correndo tra le strade sterrate col pallone al piede e a casa con mamma Tota che si lamentava per il mio poco studio. Eh già, non ero un grande studioso.
A proposito dei suoi genitori, non ha nominato suo padre: perché?
Mio padre non è mai stato molto presente, perché lavorava dodici ore al giorno e quando arrivava a casa la sera era esausto, ma ciononostante la domenica trovava sempre il tempo di portarmi alla “Bombonera” per vedere le partite del Boca. Gli sono e sempre sarò grato di tutto. Mi dispiace solo di aver compreso tardi, da adulto, il motivo per cui non fosse mai a casa con noi.
Il Boca Juniors è stata sempre la sua squadra del cuore, tanto che ha iniziato (1980-1981) e finito (1995-1997) la sua carriera lì, nella capitale. Ma oltre a quella squadra ha avuto e ha tuttora degli idoli?
Domanda interessante. Beh, da piccolo, come tutti i ragazzi, immaginavo di essere Hector Yazalde, giocatore dell’Independiente vissuto a Villa Fiorita. Crescendo, invece, i miei due punti di riferimento sono diventati Angel Clemente e Pianetti, giocatori straordinari per tecnica e mentalità che erano nel Boca Juniors.
Tutti sanno che la sua carriera inizia nel club Argentinos Juniors per poi continuare al Boca e infine approdare al Barcellona. Ma come è entrato a far parte delle “cebollitas” (giocatori delle giovanili dell’Argentinos Juniors)?
Il percorso per giocare lì non è stato facile, anzi, inizialmente non mi avevano chiamato perché a Villa Fiorita c’era un altro ragazzino molto forte che volevano, si chiamava Goyto. Però dopo si è sparsa la voce anche sulla mia bravura e lo stesso osservatore che aveva portato Goyto in squadra lo fece anche con me. Il resto già si sa: sono rimasto lì fino al 1980 e poi con il Boca ho fatto il salto di qualità.
In questo periodo ha conosciuto il suo primo amore, vero?
Il mio primo e unico! L’unica donna che abbia mai veramente amato. Lei si chiamava Claudia Villafañe e, forse, l’unica causa della rottura del nostro rapporto è stato un matrimonio molto precoce.
La sua infanzia non è molto conosciuta, invece della sua esperienza a Napoli si continua a parlare, nel bene e nel male. Cos’ha causato questo suo lento sprofondamento, che dall’essere considerato un dio dentro e fuori dal campo l’ha portata poi a precipitare nell’abuso di sostanze stupefacenti e negli eccessi?
La gente come lei rimane incredula davanti a certe storie perché non si è mai trovata nei miei panni. Sì, è vero, la colpa è mia. Avevo soldi, case, macchine, una bellissima moglie e delle splendide figlie, ma consideri questo: venivo da un’infanzia molto povera e mi trovavo a Napoli. Napoli è un città che ha due facce: quella della brava gentee quella “sporca”, nascosta, e una volta entrato nella seconda ti trovi costretto ad accontentare le persone che incontri perché sono molto potenti e se all’inizio può sembrare fantastico alla fine diventa un circolo vizioso da cui è difficile uscirne. Questa non vuole essere una giustificazione alle mie azioni: ero giovane, ho fatto i miei sbaglie ora ne pago le conseguenze. Comunque avevo già cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti a Barcellona e l’arrivo a Napoli ha aggravato la situazione.
Appena arrivato a Napoli la sua fama era già mondiale, aveva fatto bene a Barcellona anche se aveva totalizzato solo 36 presenze in due anni e aveva realizzato 22 gol, vinto una Coppa del Re, una “Copa de la Liga” e una Supercoppa Spagnola. Però la consacrazione come futuro dio del calcio avviene il 22 giugno 1986, nei quarti di finale tra Argentina e Inghilterra. Qui lei segnò facendo vincere l’Argentina con due gol che passarono alla storia: il primo fu soprannominato la “mano de Dios” perché, a quanto pare, durante lo scontro aereo avvenuto con il portiere Peter Shilton, lei avrebbe alzato la mano facendo sì che la palla lo scavalcasse entrando in porta. Il secondo invece è considerato il gol più bello nella storia del calcio e consisté in una sua fuga a slalom dal centrocampo, superando anche il portiere per poi depositare il pallone in porta.
Innanzitutto complimenti…Ma come ci è riuscito?
È difficile da spiegare, ho solo seguito quello che il mio cervello mi diceva di fare. Il primo gol penso sia stato frutto della volontà di riscatto nei confronti dell’Inghilterra e quindi ero deciso a vincere con tutti i mezzi. Mentre il secondo è stato abbastanza naturale: sono partito e non mi sono più fermato finché non ho segnato.
“Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male!”
Grazie di tutto, arrivederci.
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